DARIO COLETTI
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MANA
Cronache dal carnevale barbaricino
1995 - 2015

Mana, termine diffuso in molte lingue austronesiane della Melanesia e della Polinesia, con il significato generale di «forza sovrannaturale», «potere spirituale», «efficacia simbolica». Il termine si diffuse in Occidente con l’opera “The Melanesians” del missionario ed etnologo inglese R.H. Codrington (1891); da allora esso ha avuto particolare fortuna negli studi di storia delle religioni. (dall’Enciclopedia Treccani online)


Mana
il corpo come entità simbolica

Il corpus fotografico originato dalla quasi trentennale avventura documentaristica di Dario Coletti in Sardegna non costituisce soltanto una straordinaria testimonianza di un’umanità e di un complesso di tradizioni in divenire, ma anche un’indagine antropologica assieme locale e universale, capace di aprire un varco verso una temporalità non lineare in cui si rintracciano urgenze e pulsioni antiche. Il progetto Mana si colloca in questo contesto come una riflessione fotografica a partire dal testo “Sos Sinnos” di Michelangelo Pira, ponendo in essere una esplorazione per immagini del carnevale barbaricino. Partendo dal recupero di un nucleo di negativi del 2010, Coletti organizza una narrazione straniante abitata da tipi e maschere che si avvicendano tra le strade dei paesi come Gavoi, Orani, Mamoiada, Lula e tanti altri, fissati in un monumentale dinamismo. L’immagine fotografica diviene un varco d’accesso per intercettare connessioni nascoste e moti carsici del sentire umano, resi visibili grazie un’osservazione attenta capace di aprire ad una possibilità di trascendenza. Un’immersione dello sguardo che oltrepassi la realtà fenomenica per aprire un collegamento con una sottesa dimensione magico-rituale. Questa costante tensione si conferma nell’articolazione di temi e soggetti ricorrenti nell’immaginario del fotografo, così come nella sua produzione scritta. [Nota Il fotografo e lo sciamano. Cfr Prometeo] Ma la centralità della componente mitologica si afferma soprattutto nei processi di costruzione dell’immagine, risolvendosi all’interno del codice visivo grazie al ricorso a precise strutture compositive e iconografie archetipiche. Nelle statuarie figure dei pescatori, o nei demoni che risalgono dagli inferi delle miniere sarde, il fotografo intercetta giganti ed eroi: il corpo umano è un’entità simbolica per accedere ad una dimensione magica, una spiritualità atavica e condivisa. La riscoperta di una nuova condizione umana avviene lontano dalle sovrastrutture complesse delle metropoli globalizzate, in un’oasi che conserva una ritualità partecipata e una coscienza collettiva non addomesticata. E proprio come in un inseguimento tra bestie o tra demoni, fotografare diviene un fatto istintivo, un gesto di rinuncia alle proprie strutture, in cui la creazione dell’immagine si realizza grazie ad una partecipazione attiva al momento presente. La camera di Dario Coletti scava nella direzione dell’essenziale, e in questa discesa si realizza la metafora di una misteriosa esplorazione, un processo catartico estensione di una missione personale e collettiva. Mana indaga la complessità insita in questa condizione, intercettando un sentimento mediterraneo magnetico e spettrale.
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Gaia Bobò
Curatrice



Filosofia dei corpi simbolici
Il Mana contemporaneo

Quando Charles Baudelaire, verso la metà dell’Ottocento, si confrontò per la prima volta con la nuova arte fotografica, vista come espressione tipica della «Modernità» – un neologismo coniato dallo stesso poeta: ««il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile… » – l’impressione gli che davano quelle immagini, così reali, degli uomini e delle cose del mondo, era quella di aver di fronte dei fantasmi. Spettri di un tempo fuggevole che la fotografia sembrava preservare, e come restituire alla vita. Le foto – dal greco fotòs, cioè «luce» – davano espressione a una sorta di forza oscura contenuta nelle cose e non restituibile dalle tradizionali arti figurative, che da quel momento cambiarono volto, con l’impressionismo e le correnti espressive contemporanee. Nel caso degli uomini raffigurati in celebri ritratti (di Nadar e altri) la fissità e l’iperrealismo offriva come contropartita, una sorta di simbolizzazione dei corpi raffigurati che sembrava eccedere il senso della semplice «presenza». Sul finire del secolo XIX si diffuse, infine, anche la moda, ai nostri occhi oggi un po’ macabra, di fotografare i morti come in un gesto che ne preservasse lo «spirito» o l’anima, fissata per sempre nella figura, in attesa, forse, di un suo ritorno. Dal tema sono poi state tratte anche delle pellicole cinematografiche, la più recente delle quali è The Others (2001, con Nicole Kidman).
Le immagini della raccolta fotografica di Dario Coletti «Mana. Sacro e profano nel carnevale barbaricino. 1995-2016» offrono lo spunto per una riflessione su questa filosofia dei corpi simbolici che può emergere dalla raffigurazione del Carnevale Barbaricino in Sardegna. Maschere che coprono i volti, innestate su figure inquietanti di corpi che presentano allo sguardo un’essenzialità vitale, nelle loro figure, spesso indistinte, in movimento, colte nell’atto delle diverse processioni carnevalesche. Non sono corpi reali, bensì simulacri gravidi di un senso oscuro e recondito, che rinvia a quella forza oscura che la sola fotografia è in grado di evocare al massimo livello.
Il nume-mana, o in quant’altre maniere si lascia dire questo concetto antropologico, è da rapportare dunque alla forza, la forza ctonia, l’energia naturale dell’essere terrestre che, al tempo stesso, trascende l’esperienza attuale del mondo. In un capitolo centrale della sua opera postuma (La fine del mondo), il grande antropologo Ernesto De Martino ha saputo descrivere tale concetto con riferimento ai lavori di Marcel Mauss. Che cos’è questa «forza»? E vale la pena di approfondire questa nozione-chiave, in rapporto alla fotografia di Coletti. Claude Lévi-Strauss (nella sua Introduzione che precede la raccolta di scritti di Marcel Mauss, Sociologie et anthropologie, Puf, 1960, 2a ed., 1a 1950, pp. XLIX e L), come osserva De Martino, accenna a una interpretazione filosofica del mana (1) e a rappresentazioni più o meno affini: «Nel suo sforzo per comprendere il mondo, l’uomo dispone sempre di una eccedenza di significazione (ch’esso ripartisce fra le cose secondo le leggi del pensiero simbolico che spetta agli etnologi e ai linguisti studiare). Questa distribuzione di una razione supplementare di senso – se è lecito esprimersi così – è assolutamente necessaria affinché, nella somma totale, il significante disponibile e il significato reperito restino fra di loro nel rapporto di complementarità che è la condizione stessa dell’esercizio del pensiero simbolico. Noi riteniamo che le nozioni del tipo mana, per diverse che possano essere, ove siano considerate nella loro funzione più generale (che non scompare dalla nostra mentalità e nella nostra forma di società) rappresentano appunto questo significante ondeggiante, che è la servitù di ogni pensiero finito (ma anche la garanzia di ogni arte, di ogni poesia, di ogni invenzione mitica ed estetica), per quanto la conoscenza scientifica sia capace, se non proprio di sopprimere, almeno di disciplinare parzialmente... In altri termini... noi scorgiamo nel mana, nel wakan, nell’orenda e altre nozioni dello stesso tipo, l’espressione cosciente di una funzione semantica, il cui ruolo è di consentire al pensiero di esercitarsi, malgrado la contraddizione che gli è propria. Per questa via si spiegano le antinomie, in apparenza insolubili, connesse a tale nozione, e che hanno colpito gli etnografi e che Mauss ha messo in luce: forza e azione; qualità e stato; sostantivo, aggettivo e verbo; astratta e concreta; onnipresente e localizzata. In effetti il mana è tutte queste cose insieme, ma non forse perché non è nessuna di esse: semplice forma, o più semplicemente simbolo allo stato puro, dunque capace di caricarsi di un qualsiasi significato simbolico? In quel sistema di simboli che costituisce ogni cosmologia, questa nozione sarebbe semplicemente un valore simbolico zero, cioè un segno che sottolinea la necessità di un contenuto simbolico supplementare oltre quello che carica già il significato; ma un segno che può essere un valore qualsiasi a condizione che continui a far parte della riserva disponibile, e non sia già, come dicono i fonologi, un termine di gruppo» (2).
Questa semanticità ondeggiante che va oltre i singoli significati e che starebbe alla base delle nozioni di tipo mana, questo alone semantico del percepire al di là degli ambiti percepibili e denominabili resta tuttavia nella interpretazione di Lévi-Strauss un semplice accertamento, o quanto meno l’analisi si ferma alla superficie. La semanticità ondeggiante, l’alone semantico, del percepito, trovano espressione nel mana; ma il mana, il wakan, l’orenda, ecc. fondano un orizzonte di possibili rappresentazioni che, per il suo carattere socializzato, interpersonale, culturalmente condizionato, aperto al valore, assolve la funzione di ripresa e di mutamento di segno rispetto all’universo in tensione della crisi. Come nel carnevale barbaricino, ripreso e raffigurato da Coletti. La semanticità ondeggiante del mana circoscrive un orizzonte che muta segno agli ambiti percettivi che rischiano di andar oltre il moto irrelato: l’alone semantico del mana indica il compito culturale di tramutare la crisi individuale, irrelata e incomunicabile, in una reintegrazione interpersonale e pubblica. Mediante il mana l’universo che «va oltre» viene accettato nel suo «oltre», ma questo «oltre» si dischiude a un ordine di rapporti che valga per tutti, prescrive le vie onde ristabilire l’esserci-nel-mondo (3).
Il merito – e il valore estetico – della fotografia di Dario Coletti consiste proprio nella capacità di evocare tale forza, come presenza dell’esserci nel mondo e, insieme, come suo trascendimento valoriale, collettivo e condiviso nel «carnevale». È insieme uno spettacolo e un inedito insegnamento, l’insegnamento a vedere l’invisibile contenuto in quella forza, il mana contemporaneo, troppo spesso offuscato dalla superfetazione di immagini di cui è gravida la nostra quotidianità, vuota di quel senso.

1) Concetto religioso dell’Est melanesiano che è diventato, fra gli anni Ottanta dell’Ottocento e gli anni Cinquanta del Novecento, con Claude Lévi-Strauss, una categoria antropologica centrale nei dibattiti sulla religione, la magia e l’efficacia simbolica. La trasformazione delle narrazioni cliniche in materia etnografica richiede la rilettura critica della nozione di «significato fluttuante» proposta da Claude Lévi-Strauss.

2) Impegnato, negli anni Quaranta, in un progetto di «storia del magismo», De Martino ha rivolto un’attenzione minuziosa a tutti gli usi di nozioni come il mana, per arrivare alla conclusione non di un significato fluttuante, ma di un «concetto vuoto». Cfr. G. CHARUTY, Ernesto De Martino. Le precedenti vite di un antropologo, Franco Angeli, Milano 2010 [2009], pp. 238-40.

3) E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di G. Charuty, D. Fabre e M. Massenzio, Torino, Einaudi, 2019, p. 178-179.


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Paolo Quintili
Università degli Studi di Roma "Tor Vergata" - Filosofia in Movimento



Ombre del sacro.
Intorno alla figurazione fotografica di Dario Coletti

Compaiono come flessuosi precipitati da chissà quale lontano sedimento geologico e s’insediano per un istante durevole in tutta la loro totemica fisicità corporea metamorfizzata nei codici di perturbanti maschere lignee nere (visera) e costumi di pelle ovina (mastruca). Apparizioni metamorfiche che si riverberano negli sguardi sospesi di chi è presente ed assiste ad un movimento tellurico che, tra arresti e ripetizioni cadenzate, potrebbe protrarsi indefinitamente. Un movimento fluttuante che definisce toni e timbri tessiturali di un orizzonte carnevalesco, quello barbaricino, tra i più visionariamente intensi del giacimento culturale Mediterraneo.
Un orizzonte straniante entro il quale è dimorata, per lungo tempo, la scrittura di luce di Dario Coletti immergendosi, tra Mamoiada, Lula, Gavoi e altri siti della Sardegna, nelle dinamiche di una vibrante ed enigmatica ritualità scandita – tra mamuthones e issohadores – dalla ritmica musicale dei sonagli appesi al collo (sas hampaneddhas) e dei pesanti campanacci (sa carriga) appesi al mantello delle grandi maschere ma anche da tamburi e fisarmoniche (1).
Una scrittura di luce, quella della camera individuante di Coletti, capace di sillabare vere e proprie captazioni antropologico-visive proprio in virtù di una profonda internità relazionale alla drammaturgia religiosa che si dipana lungo i segmenti di spazio attraversati e riflessi. Un’internità dalla coloritura testimoniale squisitamente patica poiché lo sguardo di Coletti, per dirla con le parole di Ricoeur: “ha visto, sentito, provato […] insomma è stato “impressionato”, colpito, choccato, ferito, in ogni caso raggiunto e toccato dal fatto. Ciò che il suo dire trasmette è qualcosa di quell’essere-impressionato da” (2).
Dunque immagini sensibili e sapienti, disponibili ad accogliere e figurare (3) nuclei energetici essenziali di un preciso cerimoniale arcaico che implica un momentaneo mutamento di stato, di una primordiale memoria comunitaria performata, irriducibile al vocabolario di una disincantata governamentalità tecnica, di una pragmatica ragione argomentativa, che hanno congedato da lungo tempo la grammatica del sacro, il suo mistero, la sua violenza disgregatrice.
Figurare, ho appena scritto, che nell’accezione qui mutuata da Didi-Huberman, oltrepassando il mimetismo e l’univocità rappresentativa, intende mettere l’accento sul “nodo di verità essenziale” trasferito dall’aspetto più immediato dell’esito fotografico. Un nodo, mi sembra di poter dire che, nell’oscillazione tra visibile e invisibile, parla appunto in Coletti l’idioma e le segnature di una cartografia sacrale dismessa, rimossa, della quale permangono tuttavia ombre inemendabili. Ombre che trovano intima accoglienza nelle tensioni fibrillanti e destrutturanti dello spazio-tempo fotografico stratificato lungo gli anelli della sua significativa narrazione (4). Una narrazione per immagini sensibili e sapienti, dall’esatta pesatura compositiva, incise in un bianco e nero di potenti contrasti, esteso sino alle massime possibilità di gamma, in un quadrante espressivo rarefatto, di fluttuazione sospesa che gioca produttivamente con il «mosso» e con spaziature ondivaghe di messa a fuoco delle fisionomie e delle posture dei soggetti (e delle loro ombre) che fendono ambienti circoscritti, vie, slarghi, accostando pareti, eclissandosi.
Una narrazione per lampi fotogrammatici, evidentemente, la cui identità segnica, sintattica e semantica, e la sua tonalità simbolica, appare sideralmente distante dai protocolli di rappresentazione visuale e dai regimi dello sguardo della più consistente parte dell’ecosistema fotografico contemporaneo. Schiacciato sulla presentificazione idolatrica della superficie attraverso immagini, come già prefigurava diversi decenni orsono Munier destinate a costituire “un immenso corpo anonimo caratterizzato da una sostanziale autoreferenzialità del mondo, il quale rinuncia a qualunque mediazione ed è direttamente presente in tutti, è tutti” (5). Quel corpo anonimo amplificato oltremisura, come rammenta Carboni, “dal progetto di integrale solarizzazione della realtà e dell’esistenza individuale che caratterizza il démone mimetico e virtuale delle ultratecnologie?” (6).
Ecco allora che, anche in questa prospettiva, le immagini di Coletti risultano assolutamente preziose, invitando a compiere un viaggio immaginativo di rara densità. Un viaggio che è un’apertura di senso intenso anche nella misura in cui costringe ad oltrepassare circoscritti luoghi materiali e mentali, sterili monologhi identitari, consegnandoci alla pluralità delle voci dell’altro da noi. Dell’altro con noi.

1) Si veda al riguardo Raffaello Marchi, Le maschere barbaricine in «Il Ponte», anno VII n° 9-10, Settembre/Ottobre 1951, pp. 1354-1361 e, sull’asse testimoniale filmico, Sos Mamuthones de Mamojada (2004) di Italo Sordi ma anche Mascaras (Le maschere tragiche della Sardegna, 1987) di Bachisio Bandinu, Piero Sanna.

2) Paul Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare, Mulino, Bologna, 2004, p. 18.

3) Sto richiamando qui la nozione di «figurazione», in sintonia con quanto espresso da Didi-Huberman, non nel senso limitativo di “una pura e semplice procedura di messa in aspetto, di mimesis e di trasparenza rappresentativa, in breve di univocità” quanto, ad un livello più profondo ed essenziale, nel senso in cui «figurare» (equivalente ai due verbi praefigurare e anche defigurare) “consiste nel «trasporre o trasferire il senso [della cosa che si vuole significare] in un’altra figura». […] Figurare una cosa, pertanto, non significa restituirle il suo aspetto naturale o ‘figurativo’: è esattamente del contrario che si tratta, ossia di condurre un lavoro di trasferimento del suo aspetto per tentare di afferrare o di affrontare, tramite uno sviamento, il nodo della sua verità essenziale”. Georges Didi-Huberman, L’immagine aperta. Motivi dell’incarnazione nelle arti visive, Bruno Mondadori, Milano, 2008, pp. 148-149.

4) Una narrazione, verrebbe da dire, esito di una costellazione di inquadrature che sentono letteralmente la pressione del tempo che si dà in esse. Ovvero – come esemplarmente espresso da Tarkovskij – quando “aldilà di ciò che accade, si sente una verità particolarmente significativa; quando si percepisce del tutto chiaramente che quel che si vede nell’inquadratura non si esaurisce nella sua raffigurazione visiva, ma allude soltanto a qualcosa che si estende all’infinito aldifuori dell’inquadratura, allude alla vita”. Andrej Tarkovskij, Scolpire il tempo, Ubulibri, Milano, 2002, p. 111.

5) Roger Mounier, Contre l’image, Gallimard, Paris, 1963, p. 36.

6) Massimo Carboni, Resistere alla traducibilità in «il Manifesto», 1 settembre 2001.


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Giulio Latini
Università degli Studi di Roma "Tor Vergata" - Filosofia in Movimento



Lo sguardo sul Mediterraneo
Antropologia visiva e ricerca fotografica nell’opera di Dario Coletti

Il Mediterraneo è oggi sempre più al centro di un’indagine filosofica, sociologica e soprattutto antropologica. Non è semplice rilevare un significato univoco del concetto di mediterraneità che sia traducibile nelle svariate lingue parlate dagli uomini che vivono le terre bagnate da questo mare. Tuttavia esiste una coscienza mediterranea che possiamo riconoscere quando volgiamo lo sguardo alla natura interconnessa della storia e della cultura dei suoi popoli. Mentre le lingue si configurano come una frontiera chiusa alla comprensione dell’altro, le manifestazioni simboliche sono una caratteristica atavica del comportamento dell’uomo che si può rintracciare nell’arte, nella religiosità e in tutte quelle espressioni di costruzione delle forme di socializzazione.
La Festa è la più eminente fra le forme di simbolismo sociale, un tipo di espressione collettiva che implica la possibilità di leggere l’universale dell’uomo nella sua più esclusiva caratterizzazione di evento localistico. Ogni festa popolare è locale nel senso che è specificamente legata alla storia di un luogo e di un popolo, allo stesso tempo, però, ci consente di leggere l’universale dell’uomo quando ci accorgiamo che essa esprime il riconoscersi di ogni individuo nell’anelito comunitario della folla danzante.
L’opera di Dario Coletti è indagine antropologica circoscritta ad un evento locale che è in grado di farci riflettere sull’universalità dell’agire sociale dell’uomo mediterraneo e ci consente, attraverso le immagini che la sua fotografia ci restituisce, di gettare uno sguardo sulla complessità culturale e spirituale delle comunità che danno vita al nostro Bacino.
È proprio lo stesso Coletti che in un suo precedente libro, Il fotografo e lo sciamano (Postcart, 2013), ci parla della propria partecipazione alla festa di Gavoi con parole che ci aprono alla dimensione della ricomposizione della frattura fra individuo e comunità

Per il Giovedì Grasso, anche se oberato da altri impegni, cerco di ritagliarmi una giornata per assistere alla sfilata dei tumbarinos di Gavoi. Lo faccio per me. Lo faccio per emozionarmi. Lo faccio per guarire. Tutto inizia quando si scende dalla nave, con il grigio dello smog ancora nella mente e nelle narici e con l’azzurro del cielo già negli occhi. Per proseguire poi, quando si arriva in paese, nelle cucine dove si arrostisce e dove comincia l’affiatamento della compagnia. Ed è dopo il pranzo che comincia l’adunata nelle strade e nelle piazzette. Ognuno arriva come può, chi da solo, chi con il gruppo, chi con un amico. È dapprima un tamburo, unico, poi se ne aggiungono altri a provare il ritmo assieme. I primi tumbu che marcano l’aria sono prove e accordature. Intanto la gente comincia a riunirsi e a provare il ritmo assieme. C’è chi guarda, c’è odore del vino buono, ci sono occhi e labbra umide, c’è chi ricorda.

«È dapprima un tamburo unico», «lo faccio per me», Coletti coglie l’individuo nel volitivo desiderare l’incontro con l’indistinto della folla che si sta costituendo in comunità legata dal battito del tamburo: «poi se ne aggiungono altri a provare il ritmo assieme». L’autore coglie l’uno che si accorda con tutti gli altri nel momento che si crea la festa. In queste foto c’è il corpo con i suoi sensi che si esprimono attraverso il chiaroscuro della narrazione, una dimensione visiva che coglie la profondità antropologica della festa di Gavoi.
Nel testo Mana che cerchiamo di analizzare nella sua portata di simbolismo sociale, le immagini isolano il muoversi di individui non individuati e gruppi non distinguibili dal mosso ricercato della foto. L’effetto di un doppio movimento, quello del protagonista fotografato e del fotografo che non tiene un punto definito di osservazione, ci restituisce l’animosità e l’ebbrezza del momento in cui tamburi suonano all’unisono. Figure di singoli muovono verso un punto di accordo, figure di folla non distinguibile, diventano un unicum di potenza vitale.
In Mana Coletti coglie, nello scatto fotografico, l’istante in cui la mediterraneità si fa coscienza, il momento in cui ogni pellegrino, ogni mercante, ogni esule e ogni odisseo si spoglia del viaggio e si confonde nella folla e crea una comunità sempre diversa nello spazio, ma incredibilmente sempre uguale nel tempo. Il carnevale è Festa cosmica che dilania l’ordine culturale sfocando l’identità di ogni avventore in un movimento di maschere oscene e scarni corpi che inseguono il tamburellante richiamo del caos collettivo. La gazzarra di Gavoi è festa cosmica perché celebra il carnevale, un tempo liturgico in cui la comunità sa mascherare la diversità e abbandona le normali fattezze della città per sovvertirne i ruoli sociali. Come ha scritto Maria Àngels Roque, antropologa che studia da decenni le culture del Mediterraneo occidentale,

Mentre i confini politici e religiosi (tra nord e sud) appaiono rigidi, sul versante delle pratiche, al contrario, esistono delle corrispondenze che aiutano a riconoscere, anche in contesti apparentemente lontani, pratiche culturali simili, non necessariamente identici, ma dalla somiglianza comunque molto rilevante almeno per quello che il loro aspetto formale. […] Il Mediterraneo può essere considerato anche come luogo di un laboratorio, di lunga durata, all’interno del quale i diversi popoli e le diverse civiltà hanno scambiato e adattato le rispettive credenze e i rispettivi sistemi di partecipazione e solidarietà (1).

Insomma la Roque testimonia con i suoi studi che se guardiamo con attenzione i popoli del Mediterraneo, focalizzando lo sguardo sulla famiglia come riferimento culturale, gli stili di vita, e i rituali della festa, che è la religione popolare prima di ogni Rivelazione, vedremo come la comunità sia in grado di ritrovarsi e reinventarsi ogni volta come trascendenza per ogni uomo del Mediterraneo, che sia abitante del luogo o pellegrino appena arrivato. Il Mediterraneo è dunque una culla di civiltà che si è ibridata dai continui scambi tra viaggiatori e culture, e che grazie a questo continuo scambio creativo (2) ha elevato molti elementi estetici, miti, leggende e rituali a memoria comune.
La ricerca fotografica di Coletti si inserisce nella pionieristica strada tracciata da Pitt-Rivers (1959) il quale aveva capito che studiando il Mediterraneo, a partire dalle manifestazioni rituali, estetiche e sociali delle comunità locali, si sarebbe potuto superare i pregiudizi derivanti dagli stereotipi nazionali che impediscono di vedere i fondamenti comuni ai popoli e alle persone.
Queste foto stimolano il nostro pensiero a ricreare l’idea complessiva di un incontro tra singoli individui spinti dal desiderio di tornare all’unisono ad essere insieme. In un piccolo luogo come Gavoi, donne e uomini ritrovano la gioia di smarrirsi e ritrovarsi, così come tutti gli uomini sparsi per mare, prima o poi, sentono il desiderio di ritrovarsi in un porto, in una piazza, in un indistinto tamburellare di gambe e braccia danzanti in un’armonia comune. Questo carnevale che Coletti coglie nelle immagini mai statiche del libro, ha la forza di evocare nell’osservatore tutto ciò che il Mediterraneo è già scolpito nel nostro immaginario di donne e uomini che conoscono il sapore dei frutti dell’ulivo.
Come ricorda Claudio Bernardi «Nel rito di fondazione (e rifondazione sociale) si ripetono, in forma controllata, il trauma originario e la via di salvazione. Il modello di festa sacrificale per la rifondazione cosmica è, nel nostro contesto [di mediterraneo occidentale-nds], il Carnevale (3)». Con questo Bernardi spiega come questa festa sia sopravvissuta alla vittoria del Cristianesimo sui culti pagani, ma lo svolgersi di questi rituali collettivi, spontanei mantengono vivo il pieno valore dell’anelito dell’uomo alla formazione di una comunità tra diversi. Una comunità spontanea che si forma nella volontà dei singoli di sentirsi e smarrirsi in un io-collettivo.
Fuori da una rappresentazione codificata di legge divina o umana, la Festa è l’atavica via di costruzione della Volontà Generale.
Se guardiamo le fotografie di Mana, possiamo comprendere meglio la riflessione critica di Jean Jacques Rousseau sul ruolo della festa nella costituzione di una comunità. Il filosofo ginevrino era persuaso dall’idea che solo l’adunarsi spontaneo degli uomini, in un pubblico collettivo all’aria aperta, contenesse ancora il valore intrinseco di una comunità. In opposizione al valore del teatro quale possibilità di una paideia sociale, la festa non mette in scena un concetto di comunità a cui i cittadini, assistendo allo spettacolo, ne diventano sostenitori passivi. Nella festa ogni uomo, danzando, è il Mana collettivo, e diventa fondatore della comunità che è essa stessa già la festa.
Grazie alla fotografia di Coletti abbiamo la possibilità di immaginare la Sardegna di Gavoi come l’esperienza di un’inversione dell’universo sociale, un luogo-altro dove è vivo il sogno di una società-altra. In un’epoca di isolamento e spaesamento, di volti ingrigiti dal riflesso di palazzi di cemento e di sguardi assopiti dal riverbero dello schermo di un computer, la maschera di Gavoi è un faro che attrae il nostro desiderio di approdo all’utopia.

1) Maria Àngels Roque, Antropologia mediterranea - Pratiche condivise, in Mediterraneo figure ed incontri, AA.VV. Jaca Book, Milano 2005. P.11.

2) Sul concetto di Mediterraneo quale scambio creativo si veda Mohammed Bennis, Il Mediterraneo e la parola, viaggio, poesia, ospitalità, Donzelli, Roma 2009.

3) Claudio Bernardi, Carnevale, quaresima e Pasqua, dalla festa sacrificale alla libertà dell’evento, in La Festa, a cura di Silvano Petrosino, Jaca Book, Milano 2013. P. 91.


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Antonio Cecere
Università degli Studi di Roma "Tor Vergata" - Filosofia in Movimento



La maschera
nella logica di un destino

Maschere enigmatiche e perturbanti della Sardegna più arcaica resistono da migliaia di anni ed esprimono ancora oggi il terrore dell'uomo davanti al suo destino: Nella loro fisicità angosciante su scitano un senso di inquietudine in chi le indossa come in chi le osserva. Quando giunge il tempo della maschera l'uomo è preso da estraniamento, e subisce una metamorfosi: diventa animale-Dio. La vestizione è il rito iniziatico che stravolge il linguaggio del corpo. Sono pronti gli indumenti della metamorfosi: la mastrucca, fatta di pelle di pecora, il fazzoletto del vestiario femminile, la berretta sarda, i pesanti mazzi di campanacci, la maschera tragica di legno nero. Non solo il volto, tutto il corpo è mascherato e sprigiona la terribile violenza del sacro. L'uomo esce da un tempo storico ed entra in un tempo mitico. Provenienti da un tempo preistorico i Mamuthones appaiono nelle strade del paese di Mamoiada tra incantesimo e turbamento. Posseduti da uno spirito parlano il linguaggio di una danza incomprensibile, non c'è parola, non c'è canto. Non c'è teatro, non c'è scena. La danza è un sogno etnologico. Portano sul dorso trenta-quaranta chili di campanacci, fanno un salto da animale impastoiato, guardano il mondo da dentro la maschera. I Boes, I Merdules di Ottana irrompono per le strade del paese nel rito sfrenato dell'imbovamento. Un uomo ha perduto la sua identità e diventa animale bovino. Celebrazione di un arcaico rito agrario o paura della metamorfosi in animale? Possessione del dio Toro o angoscia di sparizione? Il muggito inumano non appartiene all'ordine vocale: è l'urlo che viene dalle viscere. Nulla di umano vi è nei gesti concitati e ritmici degli scrollamenti dei campanacci.
Nel paese di Orotelli gli uomini oscurano il volto con la fuliggine e diventano Thurpos, ciechi, per salvare la terra dalla maledizione e dalla siccità.
Il giogo grava sul dorso obbligando l'uomo alla condizione animale. Gli uomini-buoi tirano l'aratro per le vie del paese e arano la terra per chiedere agli dei abbondanti raccolti. I Thurpos procedono e danzano animalescamente fuori da ogni grammatica della festa. Esplodono in movimenti di follia. Non è teatro popolare il rito della maschera nella cultura sarda. Non c'è rappresentazione. Il mamutthone non è individuo né tipo. Non è personaggio né attore. Il rito è narrazione di un'esperienza ancestrale. La metamorfosi parla di alienazione totale: il linguaggio fonico-ritmico esprime il male radicale di vivere.
Non bisogna interrogarsi sul significato delle maschere tragiche della Sardegna centrale. Non c'è un senso del rito. Sfugge all'analisi della semiotica e della psicologia. Nessuna differenza tra volto e maschera. Cambiare sembianza significa diventare un altro, significa uno spirito diverso.
La maschera è nella logica del destino.
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Bachisio Bandinu
tratto da Ammentos Cagliari-1996



Maschere di Mamoiada
E se vuoi un carnevale che non ce n’è un altro su tutta la terra vattene a Mamoiada che lo inaugura il giorno di Sant’Antonio: vedrai l’armento con maschere di legno, l’armento vinto e prigioniero, i vecchi vinti, i giovani vincitori: un carnevale triste, un carnevale delle ceneri: storia nostra d’ogni giorno, gioia condita con un po' di fiele e aceto, miele amaro.
(Salvatore Cambosu, Miele amaro, 1954)

Il rito carnevalesco di Mamoiada è uno dei più affascinanti del bacino del Mediterraneo, e conserva il suo mistero ancestrale grazie alle sue inquietanti maschere e alla misteriosa danza che inscenano. Con l’impegno dell’Associazione Turistica Pro Loco, dell’Associazione culturale Atzeni e del Museo delle Maschere Mediterranee il paese ha trovato il modo di far progredire le sue energie positive, trovando nel concetto di “identità” e di diffusione della cultura il più importante e condiviso elemento di partecipazione, auto-riconoscimento e comunicazione sociale. La prima uscita dell’anno delle maschere tradizionali è fissata per il 17 gennaio, festa di Sant’Antonio Abate (Sant’Antoni ’e su ohu) che segna l’inizio del carnevale.
I Mamuthones portano sa visera, una maschera nera di legno d’ontano o pero selvatico dalle fogge antropomorfe, dall’espressione inquietante, ma nel contempo familiare ed estranea, che intende separare il visibile dall’invisibile: labbra, naso, zigomi sono pronunciati per trasfigurare le sembianze umane. In testa portano su bonette, copricapo maschile, e su muncadore, fazzoletto femminile marrone o granata. Indossano sas peddes, mastruca di pelli nere di pecora, sopra un abito di velluto (su billudu); un tempo la giacca veniva indossata al rovescio; calzano sos husinzos, scarponi del pastore. Sulle spalle portano sa carriga, circa ventiquattro chili di campanacci di ferro ottonato (su erru) tenuti insieme da un intreccio di cinghie di cuoio. Al petto portano un grappolo di bronzine (sas hampaneddas) più piccole legate anch’esse da una cinghia di cuoio.
Gli Issohadores portano un vestiario particolare chiamato sa veste’eturcu. È composto da sa hamisa, una camicia di lino, su curittu, giubba di panno rosso, e portano a tracolla sa gutturada, una cintura di cuoio ornato con broccato e alcuni sonagli d’ottone o bronzo (sos sonajolos). I calzoni bianchi (su cartzone) sono di tela o lino e vengono infilati dentro sas cartzas, le ghette d’orbace. Completano l’abbigliamento s’issalletto, uno scialle femminile annodato sui fianchi, sa berritta, antico copricapo del vestiario sardo maschile sostenuto da un fazzoletto colorato annodato sotto il mento, e sa une de resta o soha, fune di giunco che dà il nome al personaggio.
Alcuni Issohadores portano una visera bianca e antropomorfa di legno, dall’espressione impassibile.
S’omine patit su destinu: subire il destino vuol dire essere preso dalla passione di mascherarsi. Infatti vestire da Mamuthone e Issohadore è una vocazione, non un gioco, il rito non appartiene al camuffamento carnevalesco di stampo moderno, né alla commedia dell’arte. Si è parte di una rappresentazione che ha un significato sacro condiviso da tutta la comunità.
Chi veste da Mamuthone non può vestire da Issohadore, e dietro la maschera non c’è un volto da scoprire, poiché la persona vive una metamorfosi spirituale, una perdita totale dell’identità: l’uomo diventa letteralmente “altro”. Per questo la vestizione è una liturgia, basata sull’aiuto reciproco per sistemare sa carriga sulle spalle e stringere le cinghie sul petto, comprimendo il respiro e torcendo il corpo come in una muta di pelle e anima.
Per vestirsi s’Issohadore non si fa aiutare dagli altri: indossa la bandoliera e s’issalletto, legandolo al fianco sinistro, poi annoda sotto al mento su muncadore per tenere ferma sa berritta. Infine inumidisce sa soha e la fa roteare più volte perché prenda la forma giusta per il lancio.
L’agitazione della vestizione cessa quando, guidati da uno degli Issohadores, i Mamuthones fanno risuonare i campanacci con vigore per controllare che le cinghie siano ben strette e per scaricare la tensione. Allora arriva il momento cruciale di indossare sa visera e coprire la testa con su bonette e su muncadore, per completare la metamorfosi prima dell’uscita pubblica.
Terminata la vestizione, i Mamuthones escono per strada disponendosi su due file parallele: di solito sono dodici come i mesi dell’anno, e si muovono guidati da uno degli Issohadores, l’unico che porta la corda a tracolla. Quando quest’ultimo dà il via, in un silenzio carico di eccitazione i Mamuthones mettono in scena la loro processione solenne, una danza sghemba basata su un passo (su passu) che devono imparare fin da bambini, caratterizzato da uno scatto in avanti del ginocchio: salto a sinistra e torsione del busto a destra, poi salto a destra e torsione del busto a sinistra. Così, a intervalli regolari e sincroni fanno risuonare sa carriga, producendo un unico intenso strepito, infine, al segnale de s’Issohadore compiono tre salti in serie (sa doppia) per concludere la danza.
Gli Issohadores guidano la rappresentazione muovendosi con balzi agili, sincronizzati con quelli dei Mamuthones; ogni tanto lanciano sa soha per catturare una donna fra gli spettatori e invitarla a far parte del rito in segno di fertilità e buon auspicio. Il giorno de sa prima essida, il 17 gennaio, dedicato a Sant’Antonio Abate, le maschere fanno il giro di tutti i fuochi del paese, scenario dell’itinerario, in una celebrazione intima e suggestiva che coinvolge tutti i presenti. I paesani preparano dolci tipici come haschettas, popassinos biancos e nigheddos e coccone hin mele e offrono a tutti un assaggio del vino novello. Mamuthones e Issohadores danzano per propiziare la nuova annata agraria, bussano alla terra, scacciano via il male, solleci-tano la vegetazione al risveglio. Sant’Antoni ’e su ohu è la festa più importante e anche la più estenuante per chi veste da Mamuthone perché si arriva a sfilare anche per sei ore intorno ai fuochi. E così ha inizio anche su harrasehare, il carnevale “che non ce n’è altro su tutta la terra”.
Il rito delle maschere di Mamoiada ha subito nel tempo diverse sovrapposizioni di significati che fanno riferimento a differenti momenti storici, in un intreccio costante di tempo storico e tempo mitologico. È molto probabile che la celebrazione ebbe origine nell’ambiente agro-pastorale pre-cristiano, se non pre-ellenico, come rito apotropaico per scacciare gli spiriti maligni da persone e armenti, quando si aveva una concezione della vita e della morte molto diversa da quella che venne introdotta in seguito dal cristianesimo. Gli antichi credevano nella rinascita della materia, e che da questo mondo materiale tramite la morte si passasse a un altro mondo materiale, il mondo disotto. Si spiegano così, ad esempio, le figure dei “capovolti” nelle tombe neolitiche della Sardegna o il fatto che persino i Mamuthones portassero la giacca al rovescio. C’è da tenere presente anche che nell’Età protostorica il tempo che corrisponde al mese di gennaio era un importante momento del calendario agricolo, durante il quale gli uomini si ingraziavano la Grande Madre mediterranea con dei rituali atti a ridestarla dal torpore invernale per assicurarsi prosperità e fecondità. La liturgia contemplava riti purificatori dedicati al risveglio del mondo disotto e incentrati sul fuoco simbolo del sole che riprende vigore dopo il solstizio invernale e sul sangue lustrale (rappresentato dal vino), elementi con i quali si intendeva mondare la terra dalle scorie dell’inverno e prepararla al rinnovamento primaverile. Successivamente queste celebrazioni di inizio anno si intrecciarono ad altri riti propiziatori di provenienza anatolica o ellenica, come quello dedicato al dio bambino Dioniso, che moriva e risuscitava con la Natura in primavera. La parola Mamuthone potrebbe derivare infatti da “Maimatto” (il furioso, il violento) o da “Mainoles” (il pazzo, il furente), alcuni dei tanti nomi di Dioniso. I Mamuthones sarebbero così le vittime nelle quali il dio della Natura s’incarna e che eseguono la danza sacra nel tentativo di passare dallo stato umano (storico) allo stato di folle divinizzato (mitico), avviandosi come il loro dio al sacrificio necessario per la rinascita. Il rito era probabilmente eseguito anche per chiedere la pioggia durante i lunghi periodi di siccità, e per questo molte sorgenti in Sardegna portano il nome di “Maimone”o“Maimoni”, come anche la fonte di Mamujone, oggi all’interno dell’abitato di Mamoiada. Di seguito, la chiesa cristiana cercò in tutti i modi di spazzare via questi rituali pagani, ma essi erano talmente radicati che riuscì soltanto a cambiarne in parte il senso sostituendo gli idoli con i santi. Fu così che Sant’Antonio Abate assunse il ruolo delle divinità primitive ctonie (sotterranee), e in Sardegna sostituì la figura di Prometeo, il titano che sfidò gli dei rubando loro il fuoco per donarlo agli uomini, continuando la relazione tipica della festa dei fuochi con il mondo degli inferi e dunque con la morte e la rigenerazione. Infatti, anche i Mamuthones durante la festa di Sant’Antoni ’e su ohu sembrano inscenare una lotta di difesa del fuoco contro i diavoli che vorrebbero riprenderselo. Non si sa esattamente quando la festa pagana dei fuochi di metà inverno cominciò a essere frequentata dagli uomini mascherati come animali; di certo, entrambe le celebrazioni erano intrinsecamente legate alla morte e alla rinascita, tanto che in origine gli uomini probabilmente danzavano intorno al fuoco carichi di ossa e non di campanacci. Fuoco e morte, un binomio che nella spiritualità dei sardi divenne fonte di rinnovamento attraverso il rito liberatorio de su harrasegare, la festa del contrario, basata sull’inversione del ruolo uomo/bestia, di anime trasformate in bestie. Nel complesso, in particolare durante la festa dedicata a Sant’Antoni ’e su ohu, ancora oggi si mette in scena un rito purificatorio basato sul fuoco, sull’armonia ciclica tra vita, morte e rinascita, il male e il bene, il mondo di sotto e il mondo di sopra, tra il mondo animale e quello umano, dove la maschera facciale indica il pas-saggio e la metamorfosi da uno stato quotidiano e ordinario a uno mitico. Con il tempo, a questi significati ancestrali se ne sovrapposero altri, come quello proposto dall’etnologo Raffaello Marchi, il quale riteneva che i personaggi inscenassero la lotta dei Sardi contro i Mori, temuti invasori. Nel rito i Mori (Mamuthones) diventano assoggettati, mentre i Sardi (Issohadores) indossano i panni dei vincitori. In ogni caso, ancora oggi il rito di Mamuthones e Issohadores conserva il ricordo di quell’antica cerimonia che in seguito il cristianesimo screditò ad allegoria e mascherata carnevalesca. Ma quella religiosità arcaica ha resistito nel suo percorso attraversando i secoli, perché è espressione di un sentimento profondo e indelebile che riemerge prepotente e scatena la pulsione del mascheramento. Per questo, ancora oggi, al termine della processione, dopo aver deposto sa carriga ogni Ma-muthone può dire con fierezza “Ho vissuto una vita”, avendo compiuto il suo destino di morte e rinascita insieme alla Dea Natura. È grazie a queste radici solide che la tradizione a Mamoiada è come un filo che non si è mai spezzato, e i Mamuthones e gli Issohadores vivono il mito come un sentimento attuale e sempre vivo.
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Gianluigi Paffi
Cooperativa VISERAS
Museo delle Maschere Mediterranee di Mamoiada



Liberannosdomine!
“Su carrasecare boled‘attu!”, Il carnevale va fatto!, diciamo spesso a Gavoi. Non è facile trovare un significato o i significati precisi di questo “atto”, di questa tragedia. Carnevale come ripetizione, imitazione di atti, di gesti, di una passione; ma in realtà è la storia di un continuo cambiamento.
Il carnevale deve sempre continuare:

Caru Mitri, ti prego pro favore
Fagher sa parte mia a Carnevale
Comente a usu antigu tale e quale
Faghendeli ti prego tantu onore
Custu Santu devotu e protettore
Devet’esser cust’annu veneradu
“Fagher sa parte mia a Carnevale
Ti prego pro favore Mitri amadu”

Devet cust’annu comente a s’antiga
Fagher festa continu e divertire

Ite pena chi suffro in coro meu
Ca deo so distante a custa festa
Si m’agattavo cust’annu. Perdeu!...

Così scriveva, in una lunga poesia, intitolata “Unu favore”, indirizzata al cugino e poeta Mitri Urru, animatore del carnevale a Gavoi, dalla Valle dei Signori (Vicenza), zona di guerra, 14 febbraio 1919, il poeta gavoese Francesco Sedda Coanu (1898-1949)
Est su coro pienu de tristura/Cando penso ch’in bidda non bi so’…continuava il poeta:

Ma cuddos chi bi sezis in cust’annu
Cantade e divertide a d’ogn’istante,
Unu Carrasegare mannu, mannu
Faghelu Mitri, devotu costante,
S’ispàssiu una cosa istravagante
Devet esser Gavoi rallegradu.
“Fagher sa parte mia…
Ti prego pro Franciscu chi est lontanu
Mitri fagher sa mia porzione,
A Mastru Ebreu e a Mastru Ziccone
Naralis chi t’azuden’ fitianu,
tantu bos pregat Franciscu Coanu
Chi s’agattat distante addoloradu.
Fagher sa parte mia…
Da’ sos devotos de sa Corte Manna
Fàghedi frequente aggiudare
E prega puru a Efiseddu Sanna
Pera Costeri, Bainzu Ibba impare,
Toneddu Lavra bonos pro cantare
E atteros chi como app’olvidadu.
“Fagher sa parte mia…
Tottus faghide festa, divertide
Sos chi sezis in bidda, ite consolu!
A Degasperi puru mi avvertide’
Chi sonet s’organittu senza dolu,
A Pera Ladu pro su pipiolu
L’app’avvertidu e chi sonat m’at nadu.
“Fagher sa parte mia…
Ite musica bella e rallegrante
Ite consolu chi provat su coro,
Pro la pagare non s’agattad’oro
Custu suave sonu dilettante,
Lu torrat sanu s’est agonizzante
Custu sonu gentile rinomadu…

Cun cuddos modos tuos geniales
Rallegralu Gavoi, tantu assai
Cun bellos muttos, suaves morales
Faghe Mitri cust’annu cantu mai
Chi s’intendan’ in finzas a Ollolai
Sos arghiddos ch’in bidda ana bettadu.
“Fagher sa parte mia…
Ballade in d’ogni domo e a ogn’ora
Pro chi sa paghe in su mundu est torrada
Finzas a ispuntare s’aurora
Istade tottu notte in serenada
In d’onzi gurrungone, in d’ogn’istrada
Devet esser Gavoi consoladu.
“Fagher sa parte mia…

Come lui, anche molti pastori, scrivevano spesso, attorno agli anni ’30 del secolo scorso, nel periodo di carnevale, lettere in poesia alle famiglie, rimpiangendo il fatto che per quella occasione fossero distanti dal paese; “Pro ca m’ammento su carrasegare…” iniziava una di queste spedita da Siliqua. In passato, ma in molti casi ancora oggi, molti “servi pastori” “tirano in contratto” la possibilità di poter tornare in paese almeno in qualche giorno del carnevale. La poesia è il “genere letterario più capace di esprimere il mondo sardo e di diffondere la sua cultura” (Antonello Satta).
“Cun bellos muttos, suaves morales” ricordava il poeta. Su muttu de carrasecare, era la forma metrica utilizzata per cantare, improvvisando, durante il carnevale. Le fonti orali ricordano molti di questi muttos. “Si preparava un fantoccio, lo portavano in giro a cavallo ed andavano a cantare ed a ballare nelle case. Il martedi di carnevale, i cavalli partivano dietro al fantoccio, si bussava ad ogni porta e si cantavano muttos. Questo era il carnevale”…”Achiana ballos in Santu Bainzu, in su Ponte ‘e sa Codina, in sa Corte Manna. Sos ballos los ‘achiana familiares, non fudin’ ballos po tottus, udi de zente de privilegiu” (Tia Daddi, 80 anni nel 1987). I balli una volta, come in altri paesi sardi, non erano riservati a tutti i ceti sociali, ma erano per “privilegiati”, anche se venivano fatti in diversi rioni storici del paese. “Andende de porta in porta/totus sas domos chirchende/caridade dimandende/pro custa persona morta…” (Bonaventura Licheri). (Andando di porta in porta/cercando in tutte le case/cercando la carità/per questa persona morta… Il carnevale sembra anticipare la Passione. Il fantoccio veniva poi bruciato col finire del carnevale e diventatava oggetto di muttos, cantau a mortu, cantato a morto, ammuttau, o attitau così come cantavano fino a non molto tempo fa, in onore del morto, le prefiche, che ammutavant, con lo stesso metro de su muttu de carrasecare. La stessa fonte ricordava un muttu di Tiu Juvanne Cau, che aveva cantato in groppa al cavallo, per due ragazze, le sorelle Cichi, sue vicine di casa:

Mi canto sas pizzinnas/Canto per le ragazze
Paris cun sa padrona/assieme alla padrona (di casa)
Mi canto sas pizzinnas/canto per le ragazze
Ca sun’ de bona linna/perché son di buon lignaggio
Paris cun sa padrona/assieme alla padrona
Ca sun’ de linna bona./perché son lignaggio buono.

Allo stesso modo era capace di ammuttare Mitri Urru (1885-1932), poeta gavoese, per la morte della nonna, avvenuta nei giorni di carnevale all’età di 92 anni e lo faceva andando in giro per il paese non rinunciando alla festa: “Morta ch’est mamma Lai/a sos novantaduos/Morta ch’est mamma Lai/sos suos duren’ gai/a sos novantaduos/gai duren’ sos suos”. “Morta è nonna Lai/aveva novantadue/morta è nonna Lai/che i suoi possano durare così/ai novantadue/così possano durare i suoi”. Il carnevale si confonde con la morte e non si ferma. Su carrasecare quindi, come fantoccio, su mamuthone, con lo stesso significato di Maimone. Ancora oggi esclamiamo: “Pares unu carrasecare!”e “Arrazza ‘e carrasecare chi ses!” per indicare lo spauracchio, il fantoccio “mannu, mannu” grande grande.

Su mortu ‘e carrasecare
Il Giovedì Grasso si portava in giro per il paese su mortu de carrasecare.
Spesso questo era un fantoccio posto su un cavallo o su un asino, a cui veniva dato un nomignolo: Maciarrone, Guglielmone, tra quelli che si ricordano. Altre volte si chiamava un uomo molto povero, da qualche paese vicino, che si rendeva disponibile per fare “su mortu de carrasecare”.
Negli anni attorno al 1950 un gavoese (padre della fonte che me lo riferì) inviò un telegramma ad un amico di un paese del circondario, con scritto: “Portare morto” riferendosi a su mortu de carrasecare. Il morto venne a Gavoi per il carnevale.
Quest’uomo veniva legato e messo a dorso d’asino e portato in giro per il paese cantando muttos. A lui venivano fatti gli scherzi peggiori, a volte veniva legato ad un albero e lasciato lì per ore, ma girando per le case raccoglieva un poco di provviste per il ritorno a casa: formaggio, salsiccia, lardo, dolci, vino. L’atroce sacrificio veniva così ripagato.

Su Tumbarinu
Il carnevale di Gavoi con la sua musica è stato sempre caratterizzato dalla presenza del tamburo. Vittorio Angius nel Dizionario del Casalis (1833-1855) alla voce Gavoi scriveva:
«Il ballo è il divertimento comune e si fa o al concerto del coro o al suon del tamburo, o alla melodia delle canne» (sas launeddas). Diversi poeti gavoesi, oltre un secolo fa, accennavano al tamburo nei loro versi. Un bronzetto trovato in territorio di Gavoi, che ho visto anni fa, rappresenta un suonatore di tamburo a cornice che ha un copricapo rigido quasi demoniaco, sulla mano sinistra ha un tamburello che sembra essere percosso dalla mano destra che impugna un batacchio. Un Mana che suona. L’occhio sinistro è più grande dell’altro, ma sembra tumefatto, ingrossato, annodato o “legato” ferito ad occhio; la bocca è grande e carnosa e si sovrappone al mento. Indossa un gonnellino che sembra sostenuto come da strisce di pelle o di corda. Una fonte orale, Giannetto Sulas (1929-2021) ci ricordava che attorno al 1940 un certo Pietro Mula, di Gavoi, durante il carnevale “aviat istoccau unu tumbarinu e su maresciallu l’aviat arrestau” (aveva forato la pelle di un tamburo con il coltello e venne arrestato dal maresciallo).
La stessa fonte ricorda che in quegli anni a Gavoi vi erano pochi tamburi, forse tre o quattro.
Il tamburo che si possedeva nei vari rioni, veniva protetto da chi tentava di istoccare, forare, la membrana durante il carnevale. I ragazzi uscivano in gruppo, a cambaradas, spesso qualcuno di loro portava con se sa matzocca, un grosso bastone di legno, che serviva da deterrente a difesa dello strumento. Forare la pelle di un tamburo è considerato un oltraggio insopportabile.
Oggi a Gavoi in ogni casa c’è più di un tamburo. Jovia Lardajola, il giorno di Giovedì Grasso, a Gavoi, si possono vedere per strada centinaia di tamburi. Questa “sortilla ‘e tumbarinos” con un altissimo numero di suonatori, ha preso l’avvio a Gavoi dopo il 1982, quando ha ripreso vigore la costruzione dei tamburi, grazie ad una scuola impropria che vedeva qualche anziano insegnare la tecnica costruttiva ad alcuni ragazzi. Oggi anche i giovani riescono a costruire il proprio tamburo. Un fatto abbastanza recente, ma che ha radici antiche, profonde. Con la musica e gli strumenti gavoesi si è conservata la danza, il canto e la poesia popolare di tradizione orale. La pelle utilizzata per la costruzione del tamburo è di capra, pecora o capretto. Una volta si utilizzava la pelle di gatto e di cane. Forse la tradizione di utilizzare la pelle di cane per fare il tamburo si rifaceva al sacrificio del cane, ucciso per impiccagione, come nel caso di Gavoi, o per crocefissione, come nel libro Il giorno del giudizio di Salvatore Satta, dove “all’apparenza si ha commistione di una simbologia cristiana sopra un fondo pagano.” (Giovanni Lupinu). Nel mondo latino e a Roma, troviamo questo sacrificio nell’augurium canarium e nel Robigalia. Nel primo caso si sacrificavano dei cani “dal pellame fulvo al fine di scongiurare gli effetti esiziali dell’arsura canicolare sul futuro raccolto”. Riti agricoli arcaici a difesa del grano. Ma a dispetto di questo, i pastori gavoesi sono quelli che hanno ben conservato gli antichi cani trighinos “per via del mantello tigrato in varie tonalità, che vanno dal grigio al marron e dal fulvo al color miele” “un molossoide presente negli ovili per vigilare su uomini, bestie e proprietà”. (Roberto Balia) “Pedde tua, pedde ‘e cane!” si minacciava una volta. Per dire che la pelle di questo animale-uomo non valeva niente e si poteva destinare al sacrificio così come l’uomo-fantoccio veniva destinato a soffrire o a bruciare. Su pipiolu, lo zufolo, di canna palustre, è costruito e suonato da molti. Erano i pastori che lo costruivano e lo suonavano, spesso in solitudine, a volte pintoccandelu, incidendo la canna, con uno spiedo arroventato con segni e croci forse a uso scaramantico. Su triangulu viene forgiato ancora oggi da diversi fabbri. Strumento sacro anche questo, nell’antichità, che ha diversi valori simbolici e “legato spesso ai concetti di armonia e proporzione come simboli del rapporto tra divino ed umano”. Sono molti i suonatori di organetto diatonico, uomini e donne. Per cercare di capire questi cambiamenti, ed anche il valore simbolico ed identitario che ha il tamburo all’interno della comunità, è necessario conoscere questa microstoria locale. In un foglio volante manoscritto di un anonimo gavoese, sicuramente un anziano, osservando la scrittura dei versi, da me raccolto nel 1984, oltre a due sonetti sono presenti alcuni muttos. In uno di questi, il poeta si lamenta per il “cambiamento” del carnevale: “Dio carchi muttu cantare/est tottu cambiau/ Dio carchi muttu cantare/trasformau su carrasecare/est tottu cambiau/su carrasecare trasformau.” Continuava dicendo: “Cambiau est s’ambiente/est era tramontà/Cambiau est s’ambiente/e cambià est sa zente/est era tramontà/ e sa zente est cambià”. La gente era cambiata e di conseguenza il carnevale si era trasformato. Non è cambiata, forse, l’azione simbolica del carnevale ed il suo carattere trasgressivo, irriverente, che porta agli eccessi che conosciamo. Neanche l’azione della Chiesa, in Sardegna, con i suoi sinodi ed interventi di vescovi e gesuiti già dal ‘500 e ‘600, o le ordinanze delle autorità nelle varie città, nel passato, hanno impedito che il carnevale facesse il suo corso, con maschere, musiche, canti, riti e balli ai quali partecipavano spesso anche gli stessi preti. “Bidu mi l’azes su vara ballende/su martis notte de carrasegare…” Avete visto il frate che danza/il martedì notte di carnevale…” si canta, ancora oggi, “a ballo”.

La Passione
Nel carnevale tradizionale troviamo spesso una forma di sacrificio rituale, ed il “protagonista s’avvia alla sua propria morte, con il moto pesante, lento, del capro espiatorio.” (Nadia Fusini). Come nella tragedia antica che poco si curava del drama, ma più del pathos “E’ il dolore il sentimento proprio della tragedia”. Il fantoccio, su zeomo, l’Ecce Homo, che brucia, sembra ricordarci la passione del Cristo, che salverà chi lo condanna. Forse per questo si cantavano i muttos, che hanno versi della stessa lunghezza sillabica dei canti della passione e simile struttura: O tristu fatale die/ o horas penosas e duras!…si cantava a cuncordu in molti paesi sardi, per la Settimana Santa, incipit di una poesia attribuita al poeta Bonaventura Licheri (1668-1733). La sera del Giovedì Santo, giorno importante per la Settimana Santa, come il Giovedì Grasso per il carnevale, a Gavoi si usava fare anche il rito de su maudinu, percuotendo sassi nei banchi dentro la Chiesa ed usando varie tracculas per fare rumore; “A mie toccat su dolu/pro chi su mortu est su meu/a mie toccat su teu/a mie su disconsolu/…” Altre ri-percussioni. Il protagonista di questa tragedia sembra essere ognuno di noi, con la propria maschera ed il proprio travestimento, inventato da ciascuno. Ognuno vive a suo modo il carnevale. Capire questo dramma è cercare di capire il nostro io e quello di tutti gli altri, ma non è cosa semplice. E’ il dramma della vita e della morte, si cerca di rinascere continuamente con gli eccessi del carnevale, nel suonare, nel danzare, nel cantare, nel bere, nel mangiare. La nostra azione è la nostra passione. Il nostro attore sembra non avere pubblico, interpreta se stesso, cambia spesso i propri sentimenti e le proprie emozioni. La passione è quel suono drammatico e profondo di tamburo, quella musica che “trascina l’anima e l’uomo fuori di sé, in estasi”. Una sorta di innodia tra Ecce Homo e Dioniso. Ma rappresentare con le parole questi “moti dell’anima”, queste passioni, pazzie o manìe non basta per capire. Ci aiuta la memoria dei suoni o i suoni della memoria, stratificata nel tempo che ci portiamo dentro, che ci fa ancora oggi utilizzare pelli, legno, sughero, orbace, campanacci, ossa, tamburi, vesciche di maiale e altri strumenti, quasi inconsciamente. Nel carnevale oggi troviamo molti segni del cambiamento sociale e culturale di una comunità. Si costruiscono nuovi tamburi, nuove maschere. Nuovi personaggi e animatori della festa verranno ricordati, così come si ricordavano in paese i personaggi che animavano il carnevale citati nella poesia di Francesco Sedda Coanu: Tonino Rocca, Tiu Cadone, Tiu Peppinu Marche, Michele Lavra, Luigino Rocca e molti altri. Cambiato il contesto storico e sociale, abbandonato su mortu de carrasecare, raramente si cantano i muttos. Abbandonata anche sa matzocca e la pelle di cane. Il suono del tamburo con le sue diverse frequenze, avvolge il suonatore immerso nella festa mentre suona, così come la pelle di capra avvolge il tamburo o qualche volta la faccia. Una maschera sonora che ci ricopre. Ognuno ha un proprio sentire e queste onde sonore, percepite con l’anima, sono capaci di farti venire in mente le diverse quartine da ballo che ti costringono a cantare ed a ballare. Una sinapsi tra suono e cervello. Una catarsi. Cose che la musica registrata non riesce a farti sentire. La musica ed il ritmo del tamburo sono invece molto conservativi, così come la danza ed il canto. Cambia anche la lingua, ma il canto rimane lo stesso. Indossando sa carota, la maschera, ognuno fa di tutto per non farsi riconoscere. Per evitarlo spesso ci si maschera con gente con cui si esce raramente, si cambia il modo di camminare, si altera la voce, s’istrochede, si imita qualcuno. Si può cambiare la maschera anche nel giro di pochi minuti. La maschera non si tradisce e non tradisce, anche quando si riconosce qualcuno in maschera, non si rivela ad altri l’identità della persona. Anche se vi è stata qualche eccezione: una volta una maschera si lamentava del fatto che tutti lo riconoscessero. Non si era accorto che qualche suo compagno aveva messo sulle sue spalle un cartello con scritto “Zicu Lai Capu” nome e soprannome, ma per gli altri il dubbio sull’identità rimaneva, non per lui. La maschera va rispettata, non la si deve disturbare o toccare. Non toches sa mascara! La maschera può invertire i ruoli: l’uomo spesso veste da donna e la donna da uomo. E’ sempre stato così. Sa maschera istramodidi, diciamo in paese, la maschera trasforma, cambia la persona ed è difficile da riconoscere. La maschera entra in tutte le case ed è ospite gradito. La musica ed il canto aiutano ad entrare. La maschera non vuole scappare o nascondersi, vuole ritrovarsi: tra gli uomini, al bar o nelle case, nelle strade o nelle sale da ballo. Finito il carnevale, il mercoledì delle ceneri, Merculis de lèssia, ancora segni di lutto, quando chiniseris o intinghidores segnano il viso di nero, con le croci fatte col carbone. Ci si avvia verso la vera Passione. “Martis de carrasecare/merculis de Mementomo, sos ballos si ch’andan’ como, a Pasca deen torrare”.”Martedì di carnevale/mercoledì di Mement Homo/i balli ora spariscono/e torneranno a Pasqua”. Mancunu nde campat de nois! Di noi non camperà nessuno. La Quaresima “comanda” quaranta giorni di digiuno a “chi vuole digiunare”, così si canta da noi. A volte le maschere, anche di altri luoghi, sembrano mimare la passione: maschere avvolte di pelle come un uomo-Urthu, o simili vengono percosse eseguendo un rito dove “l’attore”: “Carrigadu de cadenas/unu nd’an passadu inoghe,/senza respiru, ne boghe/pro sos turmentos e penas/sas laras de samben pienas/da sos colpos chi l’an dadu…Sas palas giughet apertas/ e totu insanguinadas…(Licheri) viene percosso fino a farlo sanguinare sul viso o sulle spalle, come un Cristo. Sembra di vedere la maschera di Fordongianus, legata con funi e catene e bastonata; rito che ha anche somiglianze con le maschere di Ula Tirso, Austis, Lula, come ha ricordato in un recente convegno, tenutosi proprio a Fordongianus, lo studioso di Samugheo Gigino Deidda, che ricorda anche altri riti cruenti che si tenevano per la festa di Sant’Antonio o per carnevale. Maschere che sono rimaste nei ricordi di qualche anziano, anche se a volte rimangono fuori e dentro le Chiese. Nella Chiesa di San Gavino a Gavoi (sec. XVI), nelle facciate della torre campanaria, sembra di vedere scolpite nella trachite alcune maschere zoomorfe. Cosi come nella facciata, il rosone sembra ricordarci un calendario con tanto di giorni e settimane, mentre una maschera in terracotta trovata a Gavoi, con sembianze umane, che sembra mortuaria, e pubblicata in una cartolina nel 1995, sembra ricordarci, con delle incisioni floreali sulla fronte, le fasi lunari come le ricordavano gli ebrei. Col carnevale scandiamo il tempo, a volte ricordando qualcuno, diciamo “si nd’at fattu de carrasecares!” se ne ha fatto di carnevali! “Su tempus passat e mai nde colat” il tempo trascorre ma non passa mai, cantava un poeta del ‘700.

Anche Dario Coletti sembra ritrovarsi, partecipando a questo sogno, immergendosi in queste atmosfere. Il suo merito è quello di creare immagini che sembrano evocative cosi come il suono dei tamburi; immagini che ci dicono di un’esperienza, di un sentimento, di un istante unico, di una passione dove è importante il comunicare. Una sorta di “idealismo fotografico”, che però parte dalla buona conoscenza di Gavoi e del suo carnevale, un lavoro con l’immagine quasi di tipo mistico, ma allo stesso tempo meditato e che sembra profondamente religioso. E l’immagine, per chi conosce il lavoro di Dario, si concentra su un dettaglio o su più dettagli, assumendo un valore che va oltre il momento più o meno importante dell’evento fotografato, che va oltre il tempo, oltre la tradizione. Dario cerca di rappresentare e di leggere, capendo, “la precarietà e l’angoscia della condizione umana attraverso la frammentarietà e casualità del segno, del gesto”, sperimentando un nuovo linguaggio fotografico, che ci comunica le sue emozioni, i suoi sentimenti, grazie alle sue esperienze e conoscenze di un mondo che cerca continuamente di indagare, penetrando all’interno, di questo universo-paese, che conosce bene. Ci comunica, ancora una volta, di una “ritualità sospesa”, tra storia e mito, tra sogno e realtà, tra silenzio e musica, tra passato e futuro. Dario ha colto bene la gestualità delle maschere e dei corpi che indossano il tamburo o che danzano; dei volti, delle mani che suonano. Sembra di riconoscere noi stessi, tra ombre e luci. Sono attimi importanti, che superano l’essenza stessa del carnevale, che ci rimangono dentro e che aiutano a ritrovarci, dandoci emozioni, come ce le dà il carnevale di Gavoi e la sua “tragedia” musicale.
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Pier Gavino Sedda
Associazione Tumbarinos Gavoi





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